La regina Amalasunta

(Ravenna 495 – Isola di Martana 535)

Io sono Amalaswintha1 “la forte Amala”, appartengo agli Amali, stirpe reale degli ostrogoti che si definiva “laboriosa”. La mia gente è giunta dalle terre a Nord del Lungo Fiume che sfocia nel Mar Nero. Sono figlia della principessa Audefleda, sorella di Clodoveo I, re dei Franchi, della dinastia dei Merovingi. Suo marito, e padre mio, è Teodorico, discendente della stirpe di Odino/Gautar, nominato re delle terre italiche dall’Imperatore Anastasio, che governa da Bisanzio. È lì che mio padre fu educato, insieme ai rampolli delle famiglie patrizie romane.
Sono nata a Ravenna, sede reale che mio padre arricchì di palazzi e templi. Alla corte ravennate ho studiato il latino, il greco e appresi le lingue germaniche dei tanti popoli dell’impero. Come figlia unica, ereditavo la corona; sposandomi, Eutarico sarebbe divenuto Re. Costui fu scelto perché nobile visigoto della mia stessa stirpe. Concepimmo due figli: Atalarico e Matasunta. Ma troppo presto morì il mio sposo. Come madre di Atalarico infante, ho assunto la reggenza; ero stata preparata a governare, secondo le antiche leggi del mio popolo. Ma i tempi andavano cambiando e la mia corte – uomini d’armi e capi assetati di potere – rese assai arduo il compito. Assunsi la reggenza del Regno italico e nel contempo assicurai la migliore educazione a mio figlio Atalarico; dalla cultura romana ereditavamo il valore della cultura; mio padre era stato un re colto, non solo forte nelle armi; questo gli aveva garantito l’alto grado di sovrano italico. Ma ero circondata da gente rude e stolta, e mi fu vietato di educare Atalarico, che venne allontanato da me. Gli uomini della corte lo consegnarono ad una banda di suoi coetanei con i quali si sarebbe dato alle loro attività di adolescenti, che praticavano il vagabondaggio e le occupazioni di giovani il cui futuro doveva essere la guerra, l’uso delle armi, la caccia, la dominazione su un popolo soggetto. Un’idea balorda e sempre più diffusa, per cui la forza e la rudezza fisica, accompagnate da grande ignoranza, sia garanzia di successo. Fu un errore fatale: Atalarico, già cagionevole di salute, con i suoi compagni visse esperienze forti e fatiche inutili nelle lotte, nelle scorribande e negli eccessi dei vizi giovanili, al punto di ammalarsi. Io, regina e madre, non potei fare altro che assistere impotente al male di mio figlio e ogni tentativo di ricondurlo ad una vita più tranquilla trovò l’ostilità degli uomini di corte, che volevano un re guerriero, e incolto. Morì nel 534, dopo una lenta e inesorabile debilitazione. Quegli stessi uomini di corte e capi clan mi ostacolarono nel progetto di fare dei Goti e dei Romani un popolo unito, forte e in grado di opporsi al disgregamento dell’impero.
Ma non per nulla il mio nome era La Forte Alama: feci entrare nel senato di Roma elementi di stirpe Gota e indussi il grande Cassiodoro a scrivere una storia che vedeva nei due popoli un’origine comune.
Improntai il governo al diritto e alla eguaglianza davanti alla legge, perché era quanto di meglio avessi ereditato dalla cultura romana. Cassiodoro, mio magister officiorum, stilò sotto mia dettatura L’Indulgentia, provvedimento legislativo con cui tentai di moderare la crudeltà delle pene; volevo recuperare un arcaico senso di pietà per la durezza delle sanzioni previste dalle leggi. Il mio Indulgentia volle segnare un ritorno alla civiltà, dove l’atto di giustizia non fosse un’atrocità punitiva, ma diventasse “aequitas” ovvero moderazione, serenità, equilibrio e non vendetta. Tuttavia…

Quando Barbara Antonina Krakiewicz disegnò l’albero genealogico di Amalasunta, non avendo ancora letto la seconda parte della sua storia, non inserì il nome del secondo marito, suo assassino. Abbiamo deciso che l’assenza del femminicida dall’albero genealogico sia quanto meno nemesiaco.

Io, Amalasunta, regina dei Goti e d’Italia scrissi l’Indulgentia, corpus di provvedimenti legislativi che segnavano un ritorno alla civiltà: l’atto di giustizia non doveva più essere un’atrocità punitiva, ma un atto di “aequitas” ovvero moderazione, serenità, equilibrio e non vendetta.
Tuttavia seppi anche prendere duri provvedimenti punitivi nei confronti di quei Goti che, approfittando della loro posizione di occupanti, spogliavano oltre misura i proprietari romani dei loro beni e delle loro terre. Quando si complottò contro di me, seppi reagire e punire i cospiratori. Ritenni di primaria importanza astenermi dal rinfocolare i conflitti sui confini: bastavano i continui litigi e le guerriglie di re e reguli in giro per l’Europa: un manipolo di uomini molesti e poco lungimiranti. Ritenni prioritario intrattenere costanti rapporti con l’imperatore Giustiniano e la corte di Bisanzio.
Alla morte prematura di mio figlio, rischiai di perdere il regno. Decisi di sposare il cugino Teodato duca di Tuscia, figlio di Amalafrida, principessa gota sorella di Teodorico, padre mio; con questo secondo matrimonio tentai di mantenere la corona, per proseguire il mio progetto di unificazione e pacificazione dei territori.
Tuttavia Teodato non fu all’altezza di un sì alto obiettivo politico. In passato lo avevo duramente redarguito per aver sottratto beni e terre a famiglie romane. Teodato era un uomo avido e codardo. Non seppe proteggere nè sostenere la sua regina e moglie, perché da uomo debole e vile assecondò le trame dei nemici.
Dapprima mi tenne chiusa nella reggia di Ravenna, poi mi fece condurre sull’isola Martana nel lago di Bolsena. In quest’isola di sua proprietà, Teodato s’era fatto costruire un rifugio dove trovare tranquillità: io vi trovai la morte, per mani dei suoi sicari. Era il 30 aprile del 535, avevo 41 anni ed ero nel pieno delle mie forze e della mia maturità.
Procopio scriverà che la mia morte provocò grande dolore sia tra gli italici sia tra i goti, finalmente concordi almeno nel rimpianto di “quella donna grandemente dedita a ogni virtù”; il mio assassinio fornì all’imperatore Giustiniano il pretesto per scatenare la guerra, durata una ventina d’anni, contro i goti, che finirono con l’essere spazzati via non solo dall’Italia, ma dalla storia stessa. Tanta virile stoltezza si rivelò perniciosa: re Teodato morì ammazato poco dopo, il nome degli Alani sparì dalla storia.
Negli anni di governo di Teodorico e poi mio, la penisola italica aveva vissuto un ultimo periodo di pace e di buona amministrazione, ma soprattutto quegli anni videro l’Italia unita dalla Sicilia alle Alpi, alla Dalmazia e ad alcune terre della Provenza. Per avere nuovamente la sua Unità si dovrà attendere il 1870 e poi gli anni successivi alla prima guerra mondiale.
Le albe ed i tramonti sul Lago di Bolsena consolarono i miei ultimi giorni, e sono lieta che il mio nome sia ancora oggi vivamente legato ad un luogo tanto bello.

Katia e Nando Maurelli

1Amalaswintha: «la forte Amala», composto da amal: laborioso (nome della stirpe Amala) e da swind: forte. Passato alla storia come Amalasunta.